mercoledì 7 luglio 2010

Io anarchico: storia di una presa di coscienza

Da bambino ascoltavo certi discorsi di mio nonno: la fame, la guerra, le tasse, la disoccupazione, il governo... non ci capivo niente, piuttosto pensavo meglio a mangiare il gelato che lui era solito comprarmi. Non sapevo che quei discorsi avrebbero fatto breccia nella mia coscienza, comunque non riuscivo a delineare chiaramente il contesto, non ero in grado di fare una sintesi, era come se vedessi la sagoma di un volto del quale non riuscivo a distinguere i connotati. No, mio nonno non era un anarchico, tutt'altro, egli aveva servito con onore la cosiddetta patria. Però c'era una cosa che avevo ben capito: tutta quella folla di gente chiamata 'italiani' e che identificava la Patria era governata da 'qualcuno'. Perciò io avevo a che fare con due genitori, quattro nonni, un fratello maggiore e questo misterioso 'qualcuno'. Ce n'era abbastanza, fin troppo. Ma siccome questo 'qualcuno' non mi dava ceffoni e non mi rimproverava, lo ignoravo alquanto. Tuttavia c'era, e successivamente mi resi conto che non era meno violento di mio padre.
A scuola venne il momento di studiare la Storia, ma era una confusione di date e di nomi da imparare a memoria e non mi piaceva, non c'era niente da fare, non capivo il senso di tutte quelle guerre. In realtà avevo capito molto più di quanto i miei voti non evidenziassero. Avevo capito che le persone andavano in guerra e che si ammazzavano sul campo di battaglia. Avevo capito che queste persone chiamate 'soldati' erano comandate da 'qualcuno' che aveva una divisa sempre pulita e gli stivali sempre lucidi, un 'qualcuno' che normalmente era un generale o un imperatore. Avevo capito che questi generali e questi imperatori volevano conquistare zone del mondo chiamate Stati e che nella cartina geografica queste zone erano colorate con colori diversi. Il giallo ora vuole entrare nel verde, mi dicevo, ripassando la lezione. Ma un giorno con la penna colorai tutti gli stati di blu, cancellando definitivamente ogni confine. Fu una trovata geniale per la mia coscienza.
Crescendo avevo capito che quel famigerato e fantomatico 'qualcuno' aveva un volto, lo potevo vedere in TV, da Jader Jacobelli, dove facce sconosciute parlavano sempre di cose astruse. E avevo anche capito che quel 'qualcuno', cioè il governo, era mutevole in virtù -o per colpa- di elezioni nazionali. Ah, le elezioni! Questo meccanismo perfetto, democratico, diritto inalienabile, ma anche dovere di ogni cittadino. C'era quasi da fidarsi. Però mi domandavo se anche tutti quei giovani in corteo là fuori, con i cartelli e gli slogan contro il governo, avessero votato. Sicuramente sì, ma avevano perso. Oppure avevano vinto, ma il loro rappresentante al governo non aveva esaudito i loro desideri. Si insediò nella mia testa un grande dubbio e una domanda: è giusto che la minoranza debba sottomettersi al volere di una maggioranza, seppur momentanea?
Ma la DC rimase al potere per decenni, la chiamavano 'la balena bianca', come Moby Dick, e la minoranza ha continuato ad esistere, quindi ad essere sottomessa per decenni. Però non sapevo se quell'immensità di gente per strada che chiedeva pane e lavoro, casa e libertà, fosse davvero la minoranza, perché nel mio piccolo orizzonte di ragazzino quella era davvero una fiumana di gente. Fattostà che io ho sempre visto persone protestare per qualcosa. C'erano dei simboli sulle bandiere rosse, simboli di lavoro, ce n'erano anche graffiati sui muri, sui manifestini ciclostilati distribuiti fuori dalle scuole. Sapevo che erano simboli del comunismo, c'era una sezione del partito in paese, con tanto di falce e martello come insegna. Nei cortei si vedevano anche altri simboli, altre bandiere, altri acronimi. Quella gente che manifestava non poteva non essere ascoltata, chiedeva delle cose sacrosante! Allora le elezioni servivano a questo? A creare fazioni nel popolo? Ecco perché c'erano tutti quei partiti! Ognuno di quei partiti, in fin dei conti, non aspettava altro che un consenso popolare, al fine di ottenere una delega per il governo del Paese, per essere quel fantomatico 'qualcuno' e quindi per creare nuovamente una minoranza e una maggioranza. Non mi piaceva molto.
A 15 anni entrai per la prima volta in una sezione di partito, Democrazia Proletaria. Andai con un compagno di scuola. Era una specie di scantinato, si stava stretti e si leggeva Marx. Era un bell'ambiente, umanamente accogliente, molte ragazze. Una cosa non capivo e cioè se ero lì per le ragazze, perché c'era anche il mio compagno di scuola o perché era davvero necessario capire come funzionasse un partito. La mia coscienza l'avrebbe capito in seguito. Intanto alle manifestazioni bazzicavo anche in altri gruppi, soprattutto comunisti e radicali, e mi accorgevo della sottile -ma tenace- divisione tra tutti questi gruppi (nonostante l'intento comune), qualcuno mi rimproverava di essere una banderuola al vento, un po' qua, un po' là. Io non sentivo di 'appartenere' veramente a nessuno dei gruppi, pur condividendone le istanze, le piattaforme e tutte le proteste. Allora si fece più forte la convinzione di prima e cioè che ogni gruppo, ogni partito non aspettasse altro di possedere il potere, di prendere una delega dal popolo per andare a fare il 'qualcuno' al governo. Non mi piaceva. Anche l'architettura dei partiti non mi piaceva, c'era, in nuce, un'idea di divisione data dalla gerarchia. Insomma, capi ovunque. Se il PCI avesse vinto le elezioni, il suo segretario si sarebbe seduto sullo scranno più alto del governo e la storia si sarebbe ripetuta: altre minoranze, altre divisioni, altre proteste... un altro 'qualcuno' avrebbe imposto le sue regole a tutti. Non mi piaceva. Non mi piaceva l'idea di imposizione, di gerarchizzazione, più che le idee del partito in sè. In questa architettura, freudianamente, ci ritrovavo la stessa autorità di mio padre, quindi anche la prepotenza di mio fratello, 'il maggiore'. Doveva pur esserci una via d'uscita, una soluzione!
Dell'anarchia avevo le idee comunemente accolte, molto dopo mi accorsi che erano idee sbagliate. Avrei dovuto pensarci prima. D'altra parte, farsi un'idea di qualcosa soltanto per un 'sentito dire' o perché c'è una sorta di sterile tradizione orale, avrebbe dovuto insospettirmi già prima, cioè prima di incontrare un vero anarchico, su un treno, alla fine degli anni '70. Non mi spiegò l'anarchia, assolutamente no. Parlammo di varie cose, ma non di politica in senso stretto. Non sapevo neanche che lui fosse anarchico. Il lungo viaggio conciliò la chiacchiera e, tra un discorso e l'altro, non so bene quando e in che modo, avevo forse espresso un concetto che lo colpì in senso positivo, ma non me ne accorsi subito. Fu quando scese dal treno che mi resi conto... quando mi disse: 'piacere di aver conosciuto un anarchico come me'. Cosa? Un anarchico? Io?
Probabilmente anarchici si nasce. E molto probabilmente lo siamo tutti. Come direbbe Totò, 'lo nascemmo'. Ma l'anarchismo, anche se insito nell'essere umano, va coltivato. C'è il rischio che venga sommerso dalle convenzioni e dalle convinzioni, dai luoghi comuni costruiti ad hoc e imposti da un sistema che plasma le coscienze, facendole crescere in maniera distorta, non lasciandole libere nel loro processo evolutivo naturale. Cominciai a documentarmi, ma sempre con diffidenza, anche perché non potevo dare totale credito a uno sconosciuto che mi aveva identificato come anarchico. Ma il tarlo del dubbio, a quel punto, c'era. Trovai dei libri in biblioteca, non molti a dire il vero, ma sufficienti per un primo approccio, cauto, attento, minuzioso. Gli argomenti poterono essere letti soltanto dopo aver liberato la testa dalle sovrastrutture imposte dagli ingranaggi del sistema, ma una volta liberato quell'ostacolo, la lettura proseguì naturalmente, diretta verso il cuore.
Dopo queste letture, nelle quali ho incontrato inevitabilmente Errico Malatesta, ho cominciato a scrivere anche io, soprattutto per me stesso, per poter fissare meglio certi concetti e svilupparli, ampliarli secondo la mia personalità. Ma non sono un teorico dell'anarchismo, non ho nulla da insegnare a nessuno e questa è solo una piccola storia che ne esclude tante altre, volutamente lasciate fuori scena, tutte parallele a questo percorso, alcune contraddittorie.
Certamente nell'anarchismo ho incontrato delle contraddizioni, ma queste sono logiche, fisiologiche, perché sono l'espressione di una vitalità sempre accesa, vibrante, presente. Le contraddizioni non sono necessariamente un male, servono a superare ostacoli e il pericolo della fossilizzazione e della storicizzazione. Perciò l'anarchia può, anzi deve, esprimersi in ogni direzione, esaltata dal carattere di ognuno. Siamo tutti diversi ma tutti fraternamente uniti nell'unico ideale di libertà, contro ogni fantomatico 'qualcuno' che governa. Per il bene dell'umanità.

E.D.G.

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7 commenti:

Lucien ha detto...

Bel racconto di formazione.
Concetti che condividiamo.

Anonimo ha detto...

Bellissimo questo pezzo

dani

aleph ha detto...

Beh...lo avevamo capito eh? :-))
Ma : cosa significa essere 'anarchici' oggi? Oggi che quasi tutti i tabù sono crollati e l'individualismo estremo dilaga e padromeggia? Non è anche questa una forma di 'anarchia' ?

coscienza critica ha detto...

aleph, l'anarchia non si può identificare soltanto con l'individualismo (che poi ce ne sono di vari tipi, d'individualismo). Si può essere individualisti, come lo siamo oggi, ma dipendere totalmente dalle istituzioni. L'anarchia è un'altra cosa.

yellow ha detto...

so cosa non sono e so benissimo cosa non mi piace: starò sempre dalla parte dei più deboli.
non mi so definire altrimenti .
ammiro la tua convinzione, ciao.

Anonimo ha detto...

e' davvero incredibile come a volte degli incontri fugaci con persone sconosciute possano permettere di evolverci, nulla avviene per caso tutto ha un senso

dani

coscienza critica ha detto...

@ yellow:
se sai chi non sei, vuol dire che sai anche chi sei.

@ dani
Penso che quell'incontro abbia solo anticipato i tempi. Prima o poi avrei comunque letto qualcosa di buono sull'anarchia.

.

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