domenica 4 dicembre 2011

Pensioni. Si calcola la quantità di vita, ma non la sua qualità

Adeguare coattivamente gli anni di lavoro all'innalzamento medio dell'età anagrafica degli individui è l'immagine esatta di una politica fondata sulla schiavitù delle persone. A nulla servono le presunte giustificazioni da parte delle istituzioni: l'innalzamento dell'età pensionabile, che si unisce per giunta ad una pensione da fame (metodo contributivo), è il segnale preciso di come il sistema-Stato tratti i sudditi deleganti. 
Ma cosa vuol dire veramente adeguare gli anni di lavoro all'innalzamento della vita media? Anzitutto c'è da chiedersi quanto sia giusto aumentare il peso del lavoro a tutti, indistintamente, visto che si parla di 'vita media'. Un lavoratore, già spossato a 50 anni, può anche non vivere così a lungo, perché massacrarlo fino a farlo morire in fabbrica? E in questo caso (non così remoto e comunque inauspicato), cosa prevede lo Stato in termini di risarcimento alla famiglia? Niente. Lo vediamo già adesso con i morti sul lavoro che sono un numero spaventoso (una media di tre al giorno), completamente ignorati dallo Stato. Non che un risarcimento possa rianimare il defunto o lenire il dolore dei familiari, ma quantomeno una sorta di aiuto economico alla famiglia lo Stato potrebbe anche riconoscerlo. Ma non è neanche questo il punto-chiave della questione. 
Quale sarebbe l'età media prevista? Qualcuno ne ha parlato? E chi l'avrebbe calcolata? In che modo? Su quali dati oggettivi? Il calcolo (presunto scientifico) ha forse tenuto conto delle malattie causate dal lavoro che sono sempre in aumento? Qualcuno ha tenuto conto dell'insalubrità e dell'insicurezza dei luoghi di lavoro? Qualcuno ha tenuto conto dello stress che logora la psiche? E come mai calcolano la quantità di vita e non la sua qualità? Parlano di vita media, ma cos'è per loro la vita? Ecco dov'è il vero punto della questione: COSA E' LA VITA? A loro non importa un accidente se lo stress da lavoro logora la psiche e fa ammattire, a loro non importa proprio niente se un lavoratore si ritrova con l'alzheimer (peggio per lui), a loro importa solo il fisico, il braccio. Che se poi un lavoratore deve anche metterci un po' di ragionamento in ciò che fa, e mettiamo il caso che lo stress lo fa sbagliare, quelli mica lo capiscono, il lavoratore -e solo lui- pagherà l'errore. Al danno del sistema la beffa della legge, è un vecchio ritornello che il popolo non vuol mai capire. 
La vita non è consacrarsi al lavoro. Soprattutto quando il lavoro serve solo ad arricchire i padroni. Ma loro, i vampiri, non sono mai paghi del nostro sangue, adesso si sono inventati l'innalzamento della vita media come scusa. La vita è ben altro, è anzitutto libertà, è culto di se stessi, non certo della ricchezza del padrone. Spendere una vita per loro, per i loro guadagni, senza avere diritti, senza avere soddisfazioni reali, senza avere tempo da dedicare a se stessi, vuol dire uccidere qualsiasi individuo, consacrarlo alla schiavitù del capitale (il loro, beninteso). Un essere umano, per considerarsi tale, ha bisogno di ben altro! Cominciamo col dire che per sentirmi un essere umano io ho bisogno di affermare in ogni momento la mia dignità. E per affermare la mia dignità io ho bisogno di valorizzare me stesso nel senso che più mi aggrada, che più mi è consono, non credo che un lavoro forzato possa mai valorizzare un individuo e dargli dignità. Per sentirmi un essere umano io ho necessità di creare, di pensare, di trovare i miei tempi per la riflessione o per le cose che mi piace fare, compreso l'ozio (che non è il padre dei vizi, ma delle virtù). Per sentirmi un essere umano io ho bisogno della mia libertà e di quella degli altri, devo sentirmi oggetto di riflessione tra me stesso e il mondo (dove lo trovo il mondo se sopravvivo tutti i giorni rinchiuso nel luogo di lavoro? Dove trovo me stesso? E la mia libertà?). Per sentirmi un essere vivente ho bisogno di pormi in relazione con la Natura e con le sue leggi che sono a fondamento della morale umana, dove il tempo non può avere lancette, scansioni forzate, coercizioni e padroni che mi regolano i bioritmi a seconda delle loro esigenze. Per sentirmi vivo, per gestire la mia vita come meglio mi aggrada, non devo passare sei giorni su sette al lavoro, otto ore al giorno (per ora e se va bene), per 43 anni! Questo vuol dire rubarmi la vita, la dignità, la libertà, la creatività, la dimensione umana e naturale. Ma a loro tutto questo non importa, noi siamo schiavi, spesso felici di esserlo, tant'è che l'unico giorno 'libero' molti lo passano anche in chiesa a farsi indottrinare in altro modo. Il lavoro è diventato un dogma con il quale i sacerdoti capitalisti fanno grossi affari sulla vita delle persone. Qualcuno aveva anche calcolato un'altra cosa, cioé che se si abbattesse questo sistema-Stato basterebbe solo mezz'ora al giorno di lavoro perché tutti si possa vivere bene, in armonia e in dignità. 
Questi non sono discorsi nuovi. Questi discorsi risalgono almeno ai tempi dela prima rivoluzione industriale, e si sono accentuati nella seconda (XIX secolo), allorché si inneggiava al ritorno alla Natura, a una dimensione umana e giusta, quando l'anarchia era il timone di tutti i lavoratori. L'anarchico John Ruskin, all'epoca, teorizzò un modo nuovo di lavoro, rivoluzionario, e William Morris mise in pratica quelle teorie all'avanguardia. Morris aprì delle fabbriche di carte da parati (stile liberty) dove però gli operai non erano schiavi, ma persone libere, creavano davvero i loro disegni, e per fare ciò era necessario del tempo per pensare (otium), quegli operai-artisti fermavano le macchine quando erano stanchi, non lavoravano tante ore, potevano andare a pisciare senza il timore del bastone o del licenziamento. Le fabbriche di Morris, Marshall, Faulkner & Co. furono un modello meraviglioso, ma da abbattere presto perché avrebbero potuto compromettere ciò che oggi sta accadendo (ecco cosa producevano quegli operai e poi guardate perché quel modello di fabbrica non c'è più). 
Insomma, siamo forse giunti a uno stadio temporale gemello al XIX secolo. La condizione di sopravvivenza che ci attende non è certo differente da quella che i nostri avi hanno sopportato in fabbrica, in miniera, nei campi. Se dovessi lasciarmi andare in una ovvia profezia, direi che il prossimo passo dei padroni sarà quello di punire chi sciopera anche con la reclusione, dopo che un qualsiasi kapò, reclutato col miraggio di qualche centesimo in più, avrà bastonato il fratello scioperante. Ma se da un lato questo sistema-Stato non fa altro che tendere alla schiavizzazione dell'individuo, portandolo vieppiù a condizioni disumane e retrograde, dall'altro lato c'è la forza anarchica che preme, da sempre, per esaltare e proiettare in avanti l'essere umano e la sua idea di libertà. Non ho scelto io di essere anarchico, ma un sano ed obiettivo realismo mi spinge ad esserlo. PS. Rifaremo la Prima Internazionale, ma stavolta sarà Marx a essere estromesso, per i suoi evidenti errori storici. Onore a Bakunin.



1 commento:

durruti ha detto...

grande riflessione,totalmente condivisibile,purtroppo il popolo è sempre bue

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